6 marzo 2015
Mostruosi
labirinti
Entro e capisco che dobbiamo rimanere senza scarpe, ma sono attrezzata e ho i calzini.
Già mi sento a casa perché togliersi le scarpe, incrociare le gambe, accasciarsi sui cuscini, indossare abiti comodi e non badare agli abbinamenti di colore e alle pieghe mi fa sentire libera.
Sento profumi deliziosi e vedo colori che scaldano e sento di entrare in un nuovo luogo fatto di un nuovo tempo prezioso.
E poi arriva
il richiamo, il richiamo della foresta che canta, che sveglia chi la
abita, e insieme in cerchio, come un abbraccio, ci scambiano i nomi,
le voci, i gesti, le mani e i corpi.
Che vergogna
però mostrare la propria voce canterina.
Che
imbarazzo però sedurre sconosciute con lo sguardo.
E vogliamo
parlare del tirarsi le orecchie, scompigliarsi i capelli e far
scontrare i ventri e annusarsi?!
Il mostro.
Facciamo un mostro vivente fatto di corpi incastrati, trascinati e
accavallati, gli diamo anche voci agghiaccianti e animalesche,
paurose.
Inizio a
pensare al mio mostro, anzi ai miei mostri, e li sento che gridano e
si muovono in fretta, con forza e violenza e così provo a fare un
ritratto al mio mostro e mentre lo dipingo, appeso alla parete, con
colori scuri, nero come la rabbia, viola come la morte, grigio come
il fumo di qualcosa che brucia, blu scuro come i misteri, lo vedo che
prende forma, che tende verso l’altro, che ha punti concentrati di
colore.
Il mostruoso
se ne sta ben appeso insieme ai colleghi dando forma ad una mostra
di mostruosi.
Lo guardo da
lontano e non mi fa nemmeno così paura come potevo immaginare e
quando vado a letto penso a quando ho incontrato il mio mostro, a chi
riesce a tirarmi fuori il mostro e a chi invece riesce anche a
toccarlo e a domarlo, ma senza metterlo in gabbia.
Penso ai
mostri degli altri, ai nemici del mio mostro e alle mie mostruosità.
Il
labirinto. Il labirinto di rocce, dei miti, delle sculture,
dell’architettura, delle culture, dei sogni e delle menti.
Dei
labirinti se ne può fare un capolavoro e da sole lavoriamo con i
frutti della terra per farne un’opera.
Farine,
chicchi di mais, pietre, sassi e conchiglie, rami secchi, pezzi di
legno, fogli leggeri di carta e mettiamo in scena la complessità dei
labirinti, gli diamo dei titoli e ne facciamo un’esposizione.
Ecco
l’ultimo labirinto, che emozioni, che timore, che gioia, che
scoperta e che sollievo.
E poi ne
scelgo uno da raccontare, il primo che mi viene in mente, caspita
però è troppo intimo, però è lui e lo racconto perché la persona
che ho scelto l’ho scelta con cura, toccandole le mani, le unghie,
le vene sporgenti delle mani, le pieghe che si snodano nella mano, le
ossa del polso, la peluria delicata , le nocche, in una continua
danza di tatto sensuale e curioso.
E poi siamo
in cerchio che raccontiamo dell’altro possedendo la sua storia con
la responsabilità di trasmetterla.
Eppure
fallisco e si fallisce perché ci sono il soggettivo, la selezione
personale, una cernita fatti senza permesso e concessione.
E sono
emozionata, vorrei piangere e abbracciare qualcuno per ringraziarlo
del dono prezioso che ci ha fatto.
I fili di
lana morbida fanno un labirinto, una tela, una ragnatela labirintica
intricata e confusa, tesa, prima sul pavimento e poi verso il
soffitto e noi con fatica e cura diamo forma a nuovi fili rossi per
dar vita a parole che ci conducano fuori dai nostri labirinti del
dentro e del fuori.
E poi
bisogna narrare per iscritto e leggere per condividere e tener
dentro.
E sono
emozionata, faccio fatica a sostenere gli sguardi perché mi sento
gli occhi bagnati, sono emozionata e penso a me e al cerchio in cui
sono a quello che vedo e a quello che sento e penso che mi batta il
cuore perché è bello, è profondo, denso.
Vedo un
mosaico fatto di piccoli tasselli che abbiamo posizionato con cura.
Mi sento
leggera, reduce da una catarsi, sollevata e liberata.
Viaggio in
treno con lo zaino pieno di pensieri, così pieno che dimentico di
obliterare il biglietto e quando passa il controllore mi ricordo
delle regole, delle procedure, degli obblighi imposti, della fretta,
dei rischi.
E mi viene
in mente che il tempo passato era tempo prezioso per annullare
dimensioni quotidiane fatte di routine, di automatismi, di sequenze
meccaniche , logiche e razionali.
E penso agli
incastri in cui siamo ingabbiati e come possiamo ingabbiare gli
altri.
Penso al
cerchio, al gruppo, ai volti, alle parole.
E penso che
se le formazioni devono lavorarci, mutarci e generare conoscenze
questa formazione ha vinto la missione.
Grazie.
Grazie a
colei che mi ha ospitata e mi ha riservato del tempo.
Grazie a
colei che ha sagomato la mia mostruosità.
Grazie a
colei che mi ha fatto sentire bella.
Grazie a
colei che ha condiviso la sensualità del tatto delle mani.
Grazie a
colei che mi ha detto della sua gravidanza.
Grazie a
colei che mi ha sedotta con la sguardo e ritrovata.
Grazie a
colei che con la sua storia mi ha commossa.
Grazie a
colui che senza saperlo mi ha condotta fuori da un tortuoso
labirinto.
Grazie a
coloro che con passione e dedizione, come se fosse una missione, ci
hanno guidati lungo i sentieri della formazione, anzi meglio, della
profonda condivisione.
Grazie
Linda
6 febbraio 2014
Se dovessi raccontare in sintesi, con sei termini, l'esperienza del seminario sulla voce condotto da Camilla Barbarito presso l'associazione Il Telaio delle Arti, impiegherei queste parole: curiosità, attenzione, attesa, assenza di giudizio, voglia di condivisione e di giocare.
La curiosità e l'attesa erano palpabili: si è entrati nello spazio destinato all'incontro ancora ingombri non solo dei vestiti ma anche dei fardelli della quotidianità, per cui, una volta spogliatisi di entrambe le cose (i fardelli con l'aiuto scherzoso della conduttrice), ci si è ritrovati a girare per lo spazio rimanendo nell'attesa con curiosità. Il ghiaccio è stato rotto da un gioco di coordinamento e conoscenza che è servito a tutti a capire con quali altre persone si sarebbe condivisa l'esperienza, in modo da conoscersi meglio: successivamente si è scherzato con un gioco-esercizio di imitazione teatrale guidato da Camilla (avente anche lo scopo sotteso di riscaldare la voce e i risuonatori), propedeutico ad un successivo canto-nenia centrafricano che ha avuto la capacità di scaldare e unire tutte le persone presenti, abbattendo barriere mentali al crescere dell'intensità espressiva: un canto che è diventato quasi un mantra e che ha spalancato le porte all'emozione quando è stato chiesto di intonarlo rivolti ad un bimbo dormiente...
E' bello scoprire di avere ancora (e sempre) voglia di giocare!
Christian
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